Articoli

In questa sezione potete trovare una serie di articoli del nostro presidente apparsi in questi ultimi anni sulla rivista di apologetica Il Timone. Potrete trovare anche altri articoli inediti sulla nostra attività culturale. 

Siamo figli delle stelle. Guardiamole

La conoscenza della volta celeste, un tempo parte della sapienza popolare, oggi è appannaggio di pochi. Eppure i fenomeni astronomici accompagnano la storia della salvezza. E il cielo è un grande messaggio di Dio


di Luigi Girlanda

Il Natale è forse la festa cristiana che più di ogni altra invita a guardare al Cielo. Non solo perché in questi giorni ogni fedele è chiamato a ricordare con gratitudine che in Cristo ha trovato compimento quell’attesa millenaria di un salvatore venuto dal Cielo – attesa che, non a caso, faceva pronunciare al profeta Isaia quel meraviglioso grido: “se tu squarciassi i Cieli e scendessi!” (Is 63,19) – ma anche perché il Natale è permeato in ogni sua fibra dalle stelle. I Magi, astrologi provenienti dalla Caldea e che simboleggiano l’omaggio dell’umanità intera (e non solo di Israele) al Messia finalmente venuto dal Cielo, arrivano al Cristo neonato grazie all’osservazione di una “stella”: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo» (Mt 2,2). Molto probabilmente osservarono la luminosissima congiunzione di Giove e Saturno nella costellazione dei Pesci. Un evento astronomico rarissimo – basti pensare che si verifica una sola volta all’anno soltanto ogni otto secoli – e che solo nel 7 a.C., vero anno della nascita di Cristo, si produsse nel cielo per ben tre volte. Vittorio Messori, nel suo Ipotesi su Gesù, spiega anche la simbologia degli astrologi babilonesi: «Giove, per quegli antichi indovini, era il pianeta dei dominatori del mondo. Saturno il pianeta protettore d’Israele. La costellazione dei Pesci era considerata il segno della “Fine dei Tempi”, dell’inizio dell’era messianica». La fenomenale congiunzione astronomica, unita al significato che da sempre la loro cultura dava ai corpi celesti che ne erano coinvolti e unita – perché escluderlo? – alla lettura delle scritture ebraiche con le profezie circa l’arrivo di un salvatore, li portò alla convinzione che fosse davvero nato il Re dei re. I Magi dunque furono astronomi, nel senso che seppero osservare i corpi celesti, i loro moti, le loro proprietà e la loro “congiunzione”, ma furono anche astrologi, nel senso che interpretarono e utilizzarono le osservazioni fatte per leggere il presente e dare così spiegazione di quello che stava accadendo in Israele. C’era in essi quell’intuizione, propria di ogni cultura e di ogni epoca storica, dell’esistenza di un qualche misterioso legame tra Cielo e Terra, tra movimenti degli astri e vicende della storia, di cui dovremo chiarire meglio la natura alla luce della sana dottrina cattolica. In fondo sarà proprio il Cristo, la cui prima venuta fu accompagnata da quei segni nel Cielo, a dire che la sua seconda e definitiva venuta sarà anch’essa annunciata da fenomeni astronomici che, come bravi astrologi, siamo invitati a guardare e interpretare: «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle (…). Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte» (Lc 21, 25-27); «Allora comparirà in cielo il segno del Figlio dell’uomo (…) e vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi del cielo con grande potenza e gloria» (Mt 24, 30). Sarà bene dunque, magari durante i giorni di riposo delle festività natalizie, ricominciare a guardare e studiare un po’ il cielo, magari comprendendo bene la distinzione fra astronomia e astrologia. 

Seconda stella a destra

In effetti, viviamo in tempi in cui la stragrande maggioranza delle persone non ha più alcuna familiarità con la volta celeste ed è purtroppo priva delle più elementari nozioni di astronomia. Salvo tutte le lodevoli eccezioni, molti non saprebbero riconoscere oggi la costellazione dei Pesci o gli altri astri che guidarono i Magi a Cristo, così come avrebbero difficoltà anche solo a individuare la stella polare. Siamo diventati in un qualche modo degli stranieri del cielo, che era invece così familiare a tutte le generazioni che ci hanno preceduto. Gesù, duemila anni fa, guardava lo stesso cielo che possiamo guardare oggi, solo che noi non siamo più in grado di vederci le stesse forme, di riconoscerci gli stessi movimenti o di chiamare per nome le varie stelle. Se per l’astronomia è questione di mancanza di conoscenza, per l’astrologia, intesa – è bene precisare – non come divinizzazione sul futuro, ma come interpretazione dei segni del cielo per comprendere il presente, il problema è invece la totale demonizzazione. «L’attuale, prevalente atteggiamento cattolico – scrive Vittorio Messori in proposito – ci sembra troppo sbrigativo e sembra aver ereditato lo sprezzo e il rifiuto proprio di coloro che furono gli avversari della fede: vecchi illuministi, razionalisti, positivisti. Pertanto tutto, nell’astrologia, sarebbe imbroglio, menzogna o, nei casi migliori, illusione».

Falsa e vera astrologia

È noto che tutto ciò che oggi imperversa sui media riguardo all’astrologia è chiaramente da rigettare come ciarpame privo di ogni valore o, peggio, dannoso per l’anima e per il corpo. Basti un solo esempio per coloro che ancora credono agli oroscopi da rotocalco: la stragrande maggioranza delle persone non è del segno zodiacale a cui crede di appartenere. I segni zodiacali sono infatti le costellazioni toccate dal sole durante il suo annuale tragitto apparente nel cielo. Ebbene, a parte il fatto che le costellazioni attraversate dal sole sono tredici e non dodici (a dicembre infatti la nostra stella si trova per un discreto periodo nella costellazione dell’Ofiuco), bisogna considerare che nel trascorrere dei millenni l’asse di rotazione della Terra ha modificato la sua inclinazione – in termini tecnici il suo asse di precessione. Questo comporta che il sole oggi attraversa le varie costellazioni dello zodiaco con uno sfasamento di circa venti giorni rispetto a quando nell’antichità sono state fissate le date dei vari segni. Chiunque può verificarlo, anche attraverso le più diffuse applicazioni che permettono di vedere il cielo del proprio giorno di nascita. Nella stragrande maggioranza dei casi si vedrà che il sole si trovava a transitare nella costellazione del segno zodiacale precedente a quello a cui solitamente crediamo di appartenere, proprio per via della precessione che ha mutato il periodo in cui il sole attraversa le varie costellazioni. Pensiamo quindi a quanta ingenuità c’è nell’astrologia da quattro soldi che imperversa in tutti i media e che fa sì che ognuno legga l’oroscopo di un segno zodiacale diverso da quello in cui effettivamente è nato. Ma c’è di più: esiste anche chi, come per esempio il sottoscritto, essendo nato nei primi giorni di dicembre non troverà mai il suo segno zodiacale nei vari oroscopi. Il sole, come dicevamo, in quel periodo attraversa proprio l’Ofiuco! 

San Tommaso e gli astri

Se tutta l’astrologia odierna, è bene ripeterlo, è dunque inutile quando non pericolosa dal punto di vista spirituale, non va dimenticato che una qualche “lettura” del cielo è non solo legittima, ma per un credente addirittura doverosa, essendo, se non raccomandata, almeno implicitamente suggerita dallo stesso Gesù. Esiste quindi un’astrologia buona? Sì, se intendiamo con questo termine lo scorgere nel Cielo quei segni che, parola di Vangelo, spesso accompagnano i grandi eventi della salvezza. Non dimenticando mai la lezione che san Tommaso D’Aquino ci ha fornito nella sua Somma teologica: gli astri non possono influire sul libero arbitrio ed “è impossibile che i corpi celesti agiscano direttamente sull’intelletto e la volontà. (…) Tuttavia essi possono inclinare ad agire in un dato senso come predisposizioni” (parte II, questione 95, articolo 5). Nessuna predizione del futuro quindi, né tanto meno influsso determinante degli astri sugli eventi e sulla libertà umana. Ma, come i Magi, possiamo anche seguire le stelle per arrivare a Cristo.

da Il Timone (dicembre 2022)

La Rocca: difendere la fede nel tempo della dissoluzione

Il nuovo libro del prof. Luigi Girlanda. La raccolta completa degli interventi pubblicati per dieci anni sulla rivista 15giorni. Uno spaccato sulla vita del mondo cattolico eugubino e nazionale.


Per dieci anni la rubrica La Rocca, curata dal teologo e professore di filosofia e scienze umane Luigi Girlanda, ha offerto ai lettori del quindicinale free press 15giorni delle riflessioni originali e documentate sulla vita della Chiesa eugubina in particolare e del mondo cattolico in generale. Ora, sollecitato anche dall’apprezzamento di molti lettori, che a più riprese hanno chiesto la possibilità di poter avere una raccolta completa delle varie “rocche”, l’autore ha deciso di pubblicare il libro “La Rocca. Difendere la fede nel tempo della dissoluzione”, con tutti gli articoli scritti ed editi a partire dal 2013. Non si tratta solo di un assemblamento di pezzi giornalistici, in quanto la pubblicazione offre una vera e propria revisione e sistemazione organica del materiale, con integrazioni e contestualizzazioni che permettono al lettore sia una lettura integrale sia una da “consultazione”, saltellando tra i vari e numerosi argomenti proposti (l’opera di circa 300 pagine vanta un indice di ben 184 titoli). Nel suo invito alla lettura, don Claudio Crescimanno – indimenticato sacerdote che per oltre dieci anni ha svolto il suo ministero a Gubbio – scrive: “Ecco il beneficio di questa godibilissima raccolta: chi fino ad ora ha dovuto attendere l’uscita de La Rocca successiva, necessariamente legata alla pubblicazione della Testata che la ospita, ora ha l’opportunità di rileggere e gustare nuovamente gli articoli in un unico volume, con la possibilità di andare su e giù tra i testi e i temi di questi quasi dieci anni. Chi non ha avuto la possibilità di seguirne la pubblicazione periodica può ora profittare ex novo di questa piccola, preziosa enciclopedia delle vicende eugubine e non, di questi ultimi anni”.

Lo stile e la vena ironica

Nel corso degli anni l’appuntamento quindicinale con “La Rocca” di Luigi Girlanda ha certamente fatto discutere; a volte, per i rilievi critici avanzati, ha generato qualche malumore negli ambienti ecclesiastici, ma ha sempre saputo offrire spunti per la riflessione documentati e capaci di coinvolgere anche lettori che non condividono la fede cattolica dell’autore, perché ciò che contraddistingue “La Rocca” è da sempre la volontà di un dialogo costante e proficuo tra fede e ragione. Posso assicurare – afferma l’autore all’inizio del libro – che i più severi detrattori della rubrica hanno potuto dire che quanto scritto era inopportuno, divisivo, incauto, a volte irrispettoso, però mai gli è stato possibile dire che non fosse documentato e vero. “La sottile vena ironica – scrive ancora don Crescimanno – o addirittura esplicitamente umoristica, che contraddistingue lo stile e il linguaggio del professor Girlanda rende gustosa la lettura e accattivante anche l’argomento più impegnativo; in questo modo anche i rilievi critici non sono mai offensivi e le argomentazioni rigorose che vengono esposte non sono mai pedanti. Al contrario la scorrevolezza del testo, la sua brevità, e la sempre piacevole e garbata vis polemica lascia al lettore che conclude un articolo il desiderio di aver subito sotto mano il prossimo”.

Come acquistare “La Rocca”

Il libro è acquistabile cliccando qui sotto sia in formato digitale che cartaceo (con copertina flessibile o rigida).


Il motu proprio "Summorum pontificum"

Una riflessione a quindici anni dalla pubblicazione del motu proprio Summorum pontificum di papa Benedetto XVI, oggi drammaticamente smentito e rimosso dagli attuali vertici del Vaticano.


di Lamberto Padeletti

Un documento fondamentale per la fede

Il 7 luglio 2022 il popolo cattolico ha ricordato il 15° anniversario della lettera apostolica in forma di motu proprio Summorum Pontificum, pubblicata il 7 luglio 2007 e con la quale il Papa Benedetto XVI ha liberalizzato la cosiddetta messa in latino, come la vulgata corrente la definisce. Tale atto magisteriale per i cattolici cresciuti nel dopo concilio è stato una grande e inaspettata sorpresa che ha consentito alla totalità dei fedeli e non solo ad una piccola minoranza già autorizzata, di partecipare alla celebrazione di quella che è stata la preghiera pubblica della Chiesa per quasi 2000 anni.



La messa in latino o vetus ordo è il concentrato e la sintesi più elevata dalla Tradizione della Chiesa che Benedetto XVI ha voluto riconsegnare al popolo cattolico perfettamente ignorante sul punto per confermarlo nel depositum fidei. È stata un‘operazione per riportare la liturgia antica, che ha alimentato la fede dei nostri avi, al centro della vita della chiesa in quanto la lex orandi è lex credendi. Non finiremo mai di ringraziare il Sommo Pontefice Benedetto XVI per aver affermato la piena liceità della messa in latino che educa all’adorazione di Dio Trinità attraverso la preghiera del corpo con l’inginocchiarsi spesso, alla preghiera del cuore negli svariati momenti di silenzio in cui è ritmata la celebrazione, all’adesione dell’intelligenza alla dottrina pregata di sempre.


In sintesi, la messa antica, che ha avuto in questi anni un’adesione massiccia soprattutto tra i giovani, sviluppa un sensus fidei e uno spirito di preghiera che i cattolici, abituati alla messa attuale, hanno smarrito o quantomeno molto affievolito.Chiudo con un ricordo: mi è capitato di sentire questo commento di un sacerdote che celebra regolarmente la messa antica: “Dopo la celebrazione della messa tutto è piccolo”.


Dalla mela al verme

La dissoluzione del realismo tomista nella filosofia moderna. Conferenza a Cagliari del presidente Luigi Girlanda.


Il 4 giugno 2022 la Società Internazionale Tommaso d’Aquino – sezione Sardegna, ha invitato a Cagliari il nostro presidente, prof. Luigi Girlanda, per tenere una lectio magistralis di chiusura dell’anno accademico. Il titolo dell’incontro è stato: Dalla mela al verme, la dissoluzione del realismo tomista nella filosofia moderna.


È possibile ascoltare l'intera conferenza con le varie slide che l'hanno accompagnata cliccando sul seguente link:

https://youtu.be/d57kn2JwBUc



Il valore della Messa per i nostri defunti

Far celebrare un’Eucaristia per un defunto è il dono più grande che possiamo fargli e non è mai “a vuoto”. La Chiesa è comunione dei santi, perché la vita in ultimo non ci viene tolta ma trasformata.


di Luigi Girlanda

Ostia Tiberina, una giornata di fine agosto dell’Anno Domini 387. Santa Monica è sul letto di morte e rivolge le ultime parole ai suoi due figli riuniti al suo capezzale: «seppellite questo corpo dove che sia, senza darvene pena. Di una sola cosa vi prego: ricordatevi di me, dovunque siate, innanzi all’altare del Signore». Qualche anno dopo, uno di quei due figli, sant’Agostino, scriverà il De cura mortuorum, un testo oggi purtroppo quasi dimenticato, proprio sul significato delle preghiere per i morti e, in modo particolare, sul valore inestimabile della celebrazione della santa messa per i defunti. Dopo aver ricordato che anche nell’Antico Testamento, e precisamente nel libro dei Maccabei, si legge che venne offerto un sacrificio per i defunti, sant’Agostino si spinge a scrivere: «ma anche se in nessun luogo delle antiche Scritture si leggesse qualcosa di simile, non poca cosa sarebbe l’autorità della Chiesa universale che si manifesta in questa usanza quando, tra le preghiere che dal sacerdote vengono innalzate al Signore nostro Dio davanti al suo altare, c’è un posto preminente per la preghiera per i defunti».

Il Purgatorio esiste

Nonostante quanto vadano quindi ripetendo molti avversari del cattolicesimo, la dottrina del Purgatorio, ovvero di una purificazione per le anime dei defunti prima della visione beatifica di Dio, pur se definita soltanto nel 1274 al secondo Concilio di Lione, è da sempre creduta nella Chiesa visto che, fin dagli inizi dell’era cristiana, si è ritenuto doveroso e meritevole pregare per coloro che, lasciato questo mondo, continuano a vivere e ad essere in comunione con chi abita su questa terra. Non a caso, nel canone dei defunti, la liturgia ufficiale usa un’espressione meravigliosa: “Ai tuoi fedeli, Signore, la vita non è tolta, ma trasformata”. Una trasformazione di vita che non cancella però quella misteriosa unione tra tutti i battezzati che viene giustamente chiamata “comunione dei santi”. Il Catechismo della Chiesa Cattolica, al numero 946, dice espressamente che “la comunione dei santi è precisamente la Chiesa”. Con il battesimo ogni credente viene “incorporato” a Cristo, così da formare insieme a tutti i battezzati di qualunque epoca storica il “corpo mistico di Cristo”. C’è un’unione ontologica di tutti i fedeli quindi che, realizzata dal battesimo, non viene spezzata dalla morte. Proprio in virtù di questa comunione, anche dopo la loro morte è possibile aiutare coloro che hanno lasciato questo mondo. Non a caso, da sempre la Chiesa insegna che una delle opere di misericordia spirituale più meritorie è proprio il pregare Dio per i vivi e per i morti. In effetti, proprio perché con la morte è compiuta la nostra libertà, i defunti non possono più “compiere opere per se stessi”, ma possono ancora pregare e aiutare chi si trova sulla Terra. La chiesa militante, cioè quella formata da coloro che ancora vivono nel mondo, può invece venire in aiuto di chi si sta purificando in Purgatorio, soprattutto offrendo il sacrificio della messa. Proprio su quest’ultimo aspetto, però, ci sono molte domande che spesso nascono nel cuore dei fedeli e sulle quali è opportuno spendere qualche parola di chiarimento. 

Le messe per anime già salve o dannate

Un primo aspetto su cui vale la pena fare chiarezza è quello relativo al valore della messa celebrata per un’anima che fosse già in Paradiso o, peggio ancora, fosse finita all’inferno. In effetti, le anime dei santi non hanno bisogno di suffragi perché già contemplano Dio e quelle dei dannati non possono riceverne alcun beneficio data la loro condizione di separazione eterna dal Creatore. Molti fedeli, davanti a questa duplice possibilità, rimangono perplessi e finiscono per non far celebrare messe perché pensano che “tanto Dio sa tutto”. Ebbene, va ricordato che esiste una contabilità che solo il buon Dio sa tenere e che le nostre messe di suffragio per un’anima che non ne avesse bisogno sono comunque bene accette al Signore, che ne riversa i benefici su qualche anima che ne ha particolare bisogno. Da parte del fedele, proprio per la certezza che Dio conosce i bisogni spirituali di ciascuno dei suoi figli, vale il principio “melius est abundare quam deficere”, ovvero è meglio far celebrare una messa per un defunto che non ne ha più bisogno piuttosto che rischiare di non offrigli i benefici immensi del sacrificio di Cristo.

Il valore del sacrificio di Cristo

Proprio pensando al valore infinito di ogni singola messa, possiamo far chiarezza su un altro dubbio che spesso sorge nei fedeli. Se il sacrificio di Cristo ha un valore immenso, che senso ha far celebrare più messe per un singolo defunto? Che senso hanno tutte quelle pratiche, come ad esempio le cosiddette messe gregoriane con cui si impegna un sacerdote per trenta giorni consecutivi a celebrare per un singolo defunto, se ogni singola messa ha valore infinito? Non dovrebbe bastare la messa del funerale, senza bisogno di ulteriori celebrazioni? La risposta è piuttosto complessa dal punto di vista teologico, ma cerchiamo di renderla più semplice possibile. Ogni messa ha un valore infinito in se stessa. Quanto alla sua applicazione dipende però dalla capacità della Chiesa di unirsi all’intenzione dell’offerente. Il tesoro infinito costituito dai meriti di Cristo che si realizza nella messa non viene applicato automaticamente all’intenzione del celebrante, ma solo nella misura in cui lo stesso celebrante e tutta la Chiesa si uniscono all’offerta del sacrificio. Ed è per questo che si moltiplicano le messe, non solo per i defunti ma anche per la santificazione dei viventi. Quanto al valore oggettivo, basterebbero una singola messa e una singola comunione fatte bene per raggiungere il massimo grado di santità. Dal punto di vista soggettivo, però, l’applicazione dei meriti di Cristo dipende dalla capacità del sacerdote, dei fedeli e di tutta la Chiesa di unirsi al sacrificio eucaristico. E questa nostra capacità soggettiva, purtroppo, è sempre mancante e non è mai infinita. Per questo andiamo a messa più spesso possibile e moltiplichiamo le messe di suffragio per i nostri cari, anche se ognuna di esse ha un valore immenso e infinito.

La sintesi fatta da Dante

Meglio dunque abbandonarsi a quanto la Chiesa insegna da sempre e continuare in semplicità e umiltà a pregare e a far dire messe per i defunti. Nella certezza che ogni nostra preghiera aiuta coloro che stanno affrontando la purificazione del Purgatorio a progredire grandemente verso il Paradiso. Torniamo pure con la mente al poema di Dante, per esempio a quando re Manfredi chiede al Sommo Poeta di rivelare a sua figlia Costanza che lui è salvo e si trova in Purgatorio, così che possa pregare per lui. Lo fa perché lì, in Purgatorio, grazie alle preghiere di coloro che stanno dall’altra parte, ovvero sulla Terra, si avanza grandemente verso Dio. Nelle parole immense di Dante, che riassumono in un endecasillabo sublime l’intera dottrina cattolica sulle preghiere di suffragio, suona così: “ché qui per quei di là molto s’avanza” (Purgatorio Canto III).

da Il Timone (maggio 2022)

Così saranno i nostri corpi gloriosi

Non solo la teologia, anche la ragione filosofica può dirci qualcosa su uno dei grandi temi dell’escatologia. È quello di cui era convinto Jean Guitton, che ci ha lasciato alcune intuizioni folgoranti


di Luigi Girlanda

Filosofia e risurrezione della carne hanno avuto, fin dagli inizi del cristianesimo, un rapporto conflittuale. Il dialogo di san Paolo con i filosofi greci all’Areopago di Atene è emblematico. Dopo l’interesse iniziale dimostrato dai dotti della Grecia quando l’Apostolo parla della presenza di Dio nel quale “ci muoviamo ed esistiamo” e della ricapitolazione degli esseri in Gesù Cristo, il loro atteggiamento muta radicalmente di fronte all’annuncio della risurrezione della carne: “ti sentiremo su questo un’altra volta”, si lasciano sfuggire con malcelata ironia, interrompendo quel dialogo per sempre (cfr. At. 17,16-34).

Le domande in cerca di risposta

In effetti, se il pensiero filosofico si è alimentato e arricchito non poco dal confronto con molte delle verità della dottrina cattolica (la Trinità, l’unione ipostatica, la transustanziazione), destando l’interesse di pensatori metafisici come Cartesio, Leibniz ed Hegel, il concetto stesso di risurrezione della carne è sempre caduto nel “punto cieco” della retina pensante filosofica. A denunciare tutto questo è stato Jean Guitton, uno dei più importanti pensatori francesi del Novecento, che ha proposto in alcuni suoi scritti, meno conosciuti rispetto ai suoi capolavori sulla critica storica applicata ai Vangeli, proprio una riflessione filosofica sulla risurrezione. Può il concetto stesso di anastasis (questo il termine greco per indicare la risurrezione di Cristo) essere di aiuto alla riflessione filosofica sull’essere? C’è nel fatto storico della risurrezione di Cristo un indizio circa un nuovo statuto dell’essere, che il filosofo può indagare e collocare in una riflessione filosoficamente fondata sulla realtà in generale? Queste le domande avvincenti e coinvolgenti alle quali Guitton ha tentato di rispondere, aprendo delle prospettive inedite e, purtroppo, non ancora comprese nella loro valenza dirompente per l’ontologia, ovvero la riflessione filosofica sull’essere. Cerchiamo brevemente di ripercorrere il suo pensiero su questo tema affascinante.

Un salto preannunciato

Partiamo dal piano filosofico (ovvero il posto che il concetto stesso di risurrezione può avere nella concezione generale della natura, dell’essere e del divenire) per poi intrecciarlo col piano storico (la testimonianza evangelica sulla risurrezione di Cristo). Fino ad ora i filosofi hanno prestato molta attenzione al divenire, cioè all’evoluzione globale dell’essere intero, ma solo in un modo “orizzontale”, lineare, storico. A questo divenire, secondo Guitton, si sovrappone o, meglio, si accorda un divenire “verticale”, che sarebbe più giusto chiamare un “sopravvenire”, che riflette sull’essere non solo secondo le fasi e le tappe della sua “evoluzione”, ma anche secondo gli strati, le tappe e gli stadi del suo sviluppo intimo, delle sue “trasmutazioni ascendenti”. Con un po’ di pazienza e con qualche esempio si capisce bene cosa voglia dire Guitton. Pensiamo alla prima “trasmutazione ascendente” nell’uomo, quella che va dalla materia al pensiero o, per dirla con termini greci, dal soma alla psiche. Dalla materia, a un certo punto dell’evoluzione dell’essere, emerge il pensiero. L’uomo, che nella sua dimensione corporea appartiene al cosmo, diventa col suo pensiero ciò che “pensa” l’intero universo. L’universo non sa della propria esistenza se non nell’uomo. “Si può dire – scrive Guitton – che la percezione è una vittoria della parte sul tutto, poiché attraverso il mio pensiero io comprendo la totalità”. L’intero universo non percepisce se stesso. Il granello di sabbia che è l’uomo, col suo pensiero, comprende se stesso e l’intera spiaggia, ovvero l’universo. Lo comprende col pensiero, lo “avviluppa” ama dire Guitton, ma nel suo corpo è invece “avviluppato” dall’universo. Possiamo pensare tutto, con quella parte di noi che è il pensiero, ma siamo limitati, nell’azione e nelle operazioni che possiamo compiere, da quello stesso universo che invece avviluppiamo col pensiero. Sembra come se nello sviluppo stesso dell’essere sia annunciato una specie di “sopravvenire”, oggi inimmaginabile, ma comunque intuibile, di una futura condizione dell’uomo in cui il soma possa essere elevato alle potenzialità che oggi solo il pensiero (psiche) possiede. Un corpo spiritualizzato, non più dominato dall’universo ma capace di dominarlo. Dal soma (corpo) alla psiche (mente), dalla psiche al pneuma (spirito). Tutto questo può apparire incredibile, ma a un fantomatico spettatore esterno sarebbe apparso altrettanto incredibile anche che dalla materia potesse emergere il pensiero.

La dimensione ultima dell’essere

L’essere attende dunque un’ulteriore, definitiva “trasmutazione ascendente”? Secondo Guitton è proprio in questa prospettiva che si dovrebbe situare una riflessione filosofica sulla risurrezione: essa riparerebbe questa sproporzione attuale tra la conoscenza e l’azione. E qui possiamo vedere, come anticipavamo, l’intersecarsi del piano filosofico con quello storico. La risurrezione di Cristo è l’ingresso in questa dimensione ultima dell’essere? Se un essere umano (Gesù) è davvero già entrato in questa nuova sfera di vita, non possiamo che andare ad ascoltare la testimonianza di coloro che dicono di aver sperimentato e “toccato con mano” cosa significhi l’ingresso di un uomo in questa nuova sfera di vita. Per prima cosa bisogna liberare il campo da un equivoco. Il termine anastasis, che noi traduciamo con “risurrezione”, nulla ha a che vedere con quanto gli stessi evangelisti testimoniano di Lazzaro. Il termine usato è lo stesso, ma la realtà indicata è radicalmente differente. In Lazzaro non si trattò di vera e propria anastasis, quanto piuttosto di una “rianimazione”. Lazzaro fu riportato alla vita terrena. L’anastasis di Cristo è invece l’ingresso in questa nuova dimensione dell’essere. Una dimensione in cui il corpo è ormai trasfigurato, spiritualizzato e in grado di “avviluppare” il cosmo senza esserne “avviluppato”. Il corpo di Cristo risorto, stando alla testimonianza evangelica, è un corpo che sembra poter realizzare ciò che ora è proprio solo del pensiero. Non entra nelle stanze, ma si rende presente. Il corpo ormai trasfigurato di Cristo, come sarà per il corpo di ciascuno di noi dopo la risurrezione, è capace di avviluppare il cosmo senza esserne più avviluppato. Stando alla testimonianza evangelica il corpo di Gesù risorto è proprio il suo corpo, anche se trasfigurato, spiritualizzato, eternizzato. Pur essendo proprio il suo corpo è anche un corpo speciale che può non essere riconosciuto (come nel caso dei discepoli di Emmaus). Ebbene, anche in questo caso sembra un corpo fisico capace di compiere ciò che ora potremmo solo immaginare col pensiero.

Unicità che sarà conservata

Guitton riflette anche su come potrà essere possibile che il corpo risuscitato di ciascuno di noi sia proprio il nostro corpo, ma anche completamente trasformato e usa, per spiegare ciò, un’immagine bellissima. Ciascuno di noi ha un suo modo unico e irripetibile di “abitare” il corpo. Un po’ come la tromba d’aria che ha un suo modo unico di “turbinare” e di trasportare una materia terrestre che la rende visibile. Se al posto della nuda terra, la tromba d’aria trasportasse una sabbia di puro oro incorruttibile potrebbe darci un’idea della nostra condizione dopo la risurrezione della carne. Avremo un corpo trasfigurato, incorruttibile ed eterno, ma che “abiteremo” con quel nostro modo unico, personale e irripetibile. Piccoli tentativi di sondare il mistero, certo, ma Guitton ha avuto il merito di aver mostrato la luce che la risurrezione della carne può riverberare anche nel  pensiero filosofico contemporaneo.


da Il Timone (aprile 2022)

Kuc, la resistenza dimenticata di chi è morto invocando Dio

Foglietti strappati con poche righe raccolgono le ultime parole dei nostri ufficiali, uccisi in Albania dopo l’8 settembre, e per troppo tempo finiti nell’oblio.


di Luigi Girlanda

Nonostante siano passati più di settanta anni dalla fine della seconda guerra mondiale, ci sono ancora storie di estremo eroismo di ufficiali dell’esercito italiano che non vengono raccontate. Questo perché il fenomeno della Resistenza ha avuto molti, ma molti più protagonisti di quanti non le vengano normalmente attribuiti dalla “vulgata”. “I partigiani operanti nell’Italia centro-settentrionale – scrive il generale Alberto Zignani – furono una parte sicuramente politicamente importante, ma, altrettanto sicuramente, del tutto minoritaria rispetto al complesso delle forze che storicamente combatterono la Resistenza italiana”. Negli ultimi anni qualcosa è cambiato e, almeno su una parte della Resistenza, quella dei militari italiani all’estero, è stato rimosso il vergognoso velo di oblio. Basti pensare alla drammatica vicenda della divisione Acqui a Cefalonia, a cui è stato dedicato anche un importante e ben curato sceneggiato televisivo. Eppure, negli stessi giorni dell’eccidio di Cefalonia, solo pochi chilometri più a nord, in Albania, la divisione Perugia viveva un Calvario per certi aspetti ancora più drammatico e che è doveroso raccontare e fare uscire dall’oblio in cui è stato relegato. 

Non cedere e tornare in Patria

In quel drammatico settembre 1943 l’Albania era uno stato inserito con la forza nell’allora Regno d’Italia, contro ogni logica e convenienza, se non quella della politica di potenza della dittatura fascista. Quando si ruppero i rapporti tra Italia e Germania, con la defezione dal conflitto sancita dall’armistizio dell’8 settembre, proprio in Albania si creò una situazione drammatica per i militari italiani, visti come traditori dai tedeschi e come occupanti dai nazionalisti albanesi. “Per questo – scrive giustamente Ilio Muraca – gli avvenimenti in Albania costituiscono il quadro forse più drammatico, sfortunato e, per molti aspetti, disperatamente eroico con cui i nostri militari dovettero confrontarsi; all’inizio per sfuggire alla trappola di un territorio divenuto inaffidabile ed ostile e, in seguito, per cercare di sopravvivere, in qualsiasi modo e a qualunque prezzo in un ambiente estremamente povero e privo di risorse”. Anche gli ufficiali della divisione Perugia furono colti di sorpresa la sera dell’8 settembre 1943 dalla notizia dell’armistizio firmato dal maresciallo Badoglio con gli angloamericani. Dopo un timido entusiasmo iniziale delle truppe, illuse che la guerra fosse finita, gli ufficiali capirono subito che la situazione sarebbe diventata disperata. La prima decisione presa fu quella di riunire ad Argirocastro tutti i battaglioni del 129° reggimento, che erano di stanza in alcune città del sud dell’Albania. Dopo un confronto tra tutti gli ufficiali con il comandante, generale Ernesto Chiminello, si concordò di non cedere le armi e di spostarsi verso Porto Edda (l’attuale Saranda), situata davanti all’isola di Corfù, per attendere ordini dal Comando Supremo e tentare il rientro in Italia di tutti i soldati del reggimento. Rientro che si identificava con la salvezza! La marcia verso il mare dei circa seimila soldati e quattrocento ufficiali della Divisione fu rinfrancato anche da un messaggio del Comando Supremo, lanciato tramite un aereo, in cui si leggeva: “Mantenete salda la vostra compagnia, resistete ed attendete fiduciosi i soccorsi che stanno già per giungere a Porto Edda per restituirvi alla Patria che vi attende orgogliosa”. In realtà, una volta giunta a Porto Edda, la divisione Perugia riuscirà ad imbarcare solo una minima parte dei propri soldati, perché dall’Italia arrivarono solo poche navi. E qui si scrive una prima storia di grande eroismo. Il tenente colonnello Emilio Cirino fu imbarcato la sera del 22 settembre con l’incarico di riferire al Comando di Brindisi quanto stava accadendo in Albania. Questo eroico ufficiale giunse quindi in Italia e, una volta riferito al Comando supremo, avrebbe potuto restare in patria e ritornare dalla propria famiglia. Ma il tenente colonnello Cirino aveva dato la sua parola di ufficiale italiano che sarebbe tornato tra i suoi soldati e che non li avrebbe abbandonati. Fece ritorno in Albania per condividere la sorte dei suoi compagni ufficiali e per provvedere ai suoi sottoposti. Era la sera del 24 settembre quando Cirino sbarcò di nuovo a Porto Edda. Fu l’ultima sera in cui si riuscì a imbarcare dei militari e a farli ritornare salvi in patria. I tedeschi infatti avevano preso l’isola di Corfù e cominciarono a bombardare le navi italiane attraccate per interrompere il rientro in Italia dei soldati.

Catturati e messi a morte

L’epilogo della divisione Perugia è straziante. Nel pomeriggio del 26 settembre un Macchi 205 recapita un ultimo messaggio del Capo di Stato Maggiore: “Corfù occupata dai tedeschi. Impossibile raggiungere Porto Edda con navi. Portatevi a Porto Palermo ove procureremo imbarcarvi”. Con un ultimo disperato sforzo, l’intera divisione si sposta verso la destinazione indicata, circa quaranta chilometri più a nord di Saranda. Ma purtroppo nessuna nave giungerà mai dall’Italia. Abbandonati dal proprio Comando, attaccati dai tedeschi ormai penetrati in Albania e vessati dai continui attacchi notturni dei nazionalisti albanesi, gran parte degli ufficiali e soldati della divisione Perugia, compreso il comandante Chiminiello, decisero di consegnarsi ai tedeschi. Tutti gli ufficiali vennero riportati a Saranda e fucilati come traditori. Solo l’eroico II° Battaglione “Ciclisti” decise di non arrendersi e di prendere la via della montagna nell’entroterra albanese. Riuscirono a resistere fino alla sera del 5 ottobre, quando l’ignobile tradimento di un albanese fece sì che i tedeschi riuscissero a catturare l’ultimo resto della divisione..

Le ultime parole

Per i soldati la cattura voleva dire prigionia, ma per gli ufficiali significava morte. I tedeschi infatti non li consideravano come prigionieri, visto che all’armistizio non era seguita la dichiarazione di guerra alla Germania. Per loro gli ufficiali italiani erano traditori e come tali dovevano morire. Dopo averli separati dai propri soldati, la mattina del 7 ottobre 1943, giorno della Madonna del Rosario, li condussero in un pianoro vicino a Kuc, nell’entroterra albanese e, senza alcun processo, li fucilarono come traditori. Conosciamo ogni dettaglio di quel tragico epilogo perché uno degli ufficiali, qualche giorno prima,  aveva per caso trovato uno zaino. Aprendolo, scoprì che apparteneva a un cappellano militare che lo aveva smarrito e non poteva certo immaginare che quello zaino gli avrebbe salvato la vita. D’accordo con i compagni, che vedevano in lui l’unico che avrebbe potuto raccontare alle famiglie la loro triste sorte, si finse il cappellano militare del battaglione ed ebbe quindi salva la vita. Fece recitare la preghiera di offerta della vita a Dio ai suoi sventurati compagni, fece baciare loro un piccolo crocifisso e fece scrivere gli ultimi messaggi alle famiglie. Ne riportiamo alcuni, scelti poco più che a caso, che dimostrano come questi eroi italiani, nel momento del supremo sacrificio, fossero sorretti da una fede profonda. Il Sottotenente Ridolfi lascia scritto per sua moglie: «Mia Veruccia, ti attendo in cielo. Prega Iddio per me. Sono nel momento di essere fucilato e penso a te e chiedo perdono a Dio dei miei peccati”. Il tenente D’Urbano scrive al padre: “Caro papà, muoio nel giorno dell’Immacolata di Pompei colla corona del Rosario. Addio». In una delle lettere inviate alla famiglia, il capitano Luigi Minelli aveva scritto qualche tempo prima una frase lapidaria: “In ogni uomo sonnecchia un eroe”. E fu proprio in quel momento supremo che l’eroe dormiente in ciascuno degli ufficiali del II° battaglione della divisione Perugia si risvegliò. Furono fucilati a gruppi di quattro per ordine di grado. Erano circa le 10,35. Morirono tutti gridando “viva l’Italia”. Sono stati insigniti della Medaglia al Valor militare. I loro resti mortali oggi sono conservati al sacrario militare di Bari. 

Per approfondire è possibile visitare il sito curato dai familiari degli ufficiali fucilati a kuc www.kuc.altervista.org

da Il Timone (dicembre 2021)

Maria, come la Luna

Senza il satellite, la vita sulla Terra sarebbe una scommessa quasi impossibile, così senza la Madonna (e la Chiesa) la vita di fede diventerebbe difficile


di Luigi Girlanda

Nel dicembre 1953, in occasione dell’apertura dell’anno mariano a un secolo dalla proclamazione del dogma dell’Immacolata concezione, papa Pio XII si recò di persona a omaggiare la statua di Maria nei pressi di piazza di Spagna a Roma, dando inizio a una consuetudine proseguita dai sommi pontefici fino a oggi. Due anni dopo, esattamente il 17 gennaio 1956, papa Pacelli compose una preghiera, nel cui incipit la Madre di Dio viene paragonata alla luna: “O Vergine bella come la luna, delizia del cielo (…) fa’ che noi, tuoi figliuoli, ti assomigliamo e che le nostre anime ricevano un raggio della tua bellezza”.

Guardando lassù

Numerose sono le “coincidenze mariane” che, come è noto, hanno segnato la vita sacerdotale e spirituale di Pio XII. La sua consacrazione episcopale avvenne il 13 maggio del 1917, giorno d’inizio della straordinaria serie di apparizioni della Madonna a Fatima. Il legame di papa Pacelli con Fatima si farà ancora più intenso nel corso degli anni. Nel 1950, anno in cui proclamerà l’ultimo grande dogma mariano, quello dell’Assunzione in Cielo di Maria in anima e corpo, il miracolo del sole di Fatima si ripeté davanti ai suoi occhi. Il 30 ottobre, antivigilia del giorno della solenne definizione del dogma, verso le quattro del pomeriggio, mentre faceva la sua consueta passeggiata nei giardini vaticani, papa Pacelli alzò infatti gli occhi verso quel cielo in cui la Vergine Maria è stata assunta e assistette al miracolo del sole, in modo simile a quanto accadde a Fatima nell’ottobre 1917. Il Cielo, luogo dell’assunzione di Maria, il Sole simbolo di Cristo, la Luna come metafora della bellezza e dello splendore di Maria: da sempre la fede cattolica, sulla scorta di quanto fa anche la Bibbia, si serve di simboli astronomici per esprimere i misteri profondi della Verità rivelata. Più si progredisce nella conoscenza astronomica del cielo e più si possono approfondire anche i significati e il valore teologico di certe immagini che da sempre accompagnano la predicazione e l’arte cristiana. Prendiamo ad esempio la Luna e tutto ciò che oggi sappiamo su questa “compagna di viaggio” del nostro pianeta.

Una simbiosi fondamentale

Negli ultimi due anni, anche sulla scia dell’interesse suscitato dalla celebrazione del cinquantesimo anniversario dell’allunaggio, molte riviste specializzate hanno pubblicato interessanti articoli, in cui è possibile scoprire quanto sia essenziale l’esistenza di questo satellite. In effetti, se da sempre si conosce l’importanza del Sole per la vita e la sopravvivenza del nostro pianeta, solo recentemente si è cominciata a sottolineare anche l’importanza della Luna per lo sviluppo e la continuazione della vita sulla Terra. Insieme sin da neonate – è quasi certo che la Luna si sia originata dal tremendo impatto con la Terra di un protopianeta della massa di Marte – la simbiosi fra il nostro pianeta e il suo satellite è stata e continua a essere di fondamentale importanza per la formazione e la proliferazione della vita. Cosa accadrebbe se, per assurdo, il nostro unico satellite sparisse all’improvviso? Ci ritroveremmo ad abitare un pianeta dalle condizioni davvero ostiche. La Luna è, per esempio, la principale responsabile dei movimenti di marea dei nostri oceani e dei nostri mari. “La sua attrazione gravitazionale – scrive Giulio Marciello – combinata con la forza centrifuga apparente della rotazione terrestre, genera dei veri e propri «rigonfiamenti» sulla faccia del nostro pianeta rivolta verso il satellite (…) abbastanza importanti da cambiare il livello del mare di svariati metri. Senza la nostra cara «eterna peregrina» questo fenomeno verrebbe ridotto portando alla conseguente estinzione di moltissime specie che dipendono dai reflussi marini e dalle correnti”, come ad esempio le barriere coralline. Non solo: senza la Luna e la sua attrazione, l’asse terrestre non potrebbe mantenere la sua inclinazione di circa 23° rispetto all’eclittica – il piano su cui si muove la Terra. Le conseguenze sarebbero catastrofiche: in primo luogo, non avremmo più l’alternarsi regolare delle stagioni – reso possibile proprio dall’inclinazione dell’asse terrestre – con cambi repentini del clima, conseguenti drammatiche tempeste e grandi estremi di freddo e di caldo. Inoltre, i poli cambierebbero di continuo la loro posizione e la Terra, anche se in qualche milione di anni, arriverebbe a inclinarsi fino a 90° portando i poli all’equatore. Senza la Luna, infine, non avremmo più alcun “orologio astrale naturale” e animali e piante risentirebbero pesantemente dell’assenza di raggi lunari che rischiarano le notti più oscure e scandiscono i cicli di accoppiamento di molti esseri viventi. “Le creature – scrive ancora Marciello – dovrebbero adattarsi alla nuova, profonda oscurità con mutamenti prima d’allora impensabili”. Questi sono solo alcuni degli effetti devastanti che possiamo ipotizzare qualora venissimo privati del nostro satellite. Non solo il Sole quindi è essenziale per la vita sulla Terra, ma anche la stessa Luna.

Riflesso del sole che è Cristo

Alla luce di queste riflessioni della scienza astronomica, ci sembra che possano acquistare un nuovo valore anche le similitudini che, fin dai tempi dei padri della Chiesa, sono state utilizzate per rendere più accessibili alla ragione umana i misteri di Cristo, di Maria e della stessa Chiesa. Già sant’Ambrogio, come è noto, paragonava la Chiesa alla Luna scrivendo: “La Chiesa rifulge non della propria luce, ma di quella di Cristo. Trae il proprio splendore dal Sole di giustizia, così che può dire: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me»” (Hexaemeron, IV, 8, 32). Tale similitudine, se applicata anche a Maria – figura e modello della Chiesa – e se vista alla luce di quanto sappiamo dall’astronomia, ci dice non solo che la Madre di Dio e la Chiesa risplendono della luce di Cristo, ma anche che sono essenziali alla vita di fede. La salvezza viene da Cristo e solo da lui, ma egli ha affidato alla Chiesa la pienezza dei mezzi della salvezza, ovvero i sacramenti, che sono quindi necessari alla salvezza. Certo, san Tommaso d’Aquino insegna che “Dio non ha vincolato la sua virtù ai sacramenti, in modo tale da non poterne produrre gli effetti anche senza di essi” (Sum. Th. III q. 64. A. 7c.), ma la Chiesa non conosce altra via sicura di salvezza se non quella della grazia sacramentale. Tornando alla similitudine astronomica, possiamo dire che, teoricamente, la vita sulla Terra sarebbe possibile anche senza la Luna, ma non sappiamo davvero come potrebbe essere. Allo stesso modo, seguendo san Tommaso e il magistero della Chiesa, possiamo dire che la salvezza sarebbe possibile anche senza i sacramenti (perché Dio può tutto e non è “legato e vincolato” a essi), ma davvero non possiamo immaginare in che modo e con quali difficoltà si realizzerebbe. Meglio invece ringraziare il buon Dio per averci donato la luna (ovvero Maria e la Chiesa) per rischiarare il nostro cielo. Luna che non brilla certo di luce propria, ma del riflesso del sole (Cristo) e che, oggi lo sappiamo con maggiori dettagli scientifici, rende più facile vivere la vita su questa Terra e, fuor di metafora, andare a quel cielo già abitato in anima e corpo dalla nostra Madre celeste. 


da Il Timone (settembre 2021)

Il pensiero pericoloso di Renato Cartesio

Riportiamo uno dei contributi del presidente Luigi Girlanda al Dizionario elementare del pensiero pericoloso edito dall’Istituto di Apologetica (a cura di Gianpaolo Barra, Mario A. Innaccone e Marco Respinti). Le varie voci del Dizionario sono articolate in modo da riportare notizie biografiche sull’autore esaminato, alcune affermazioni centrali del suo pensiero e le risposte cattoliche per evidenziarne gli errori e la pericolosità. È possibile acquistare il Dizionario direttamente dal sito del Timone.


di Luigi Girlanda

René Descartes (1596-1650), latinizzato in Renatus Cartesius e italianizzato in (Renato) Cartesio, nasce a La Haye, in Francia. Rimane orfano della madre a solo un anno; il padre si risposa avendo altri due figli. Viene educato nel collegio dei gesuiti di La Flèche, dove entra nel 1607. Nel 1618, si arruola volontario nell’esercito del principe protestante Maurizio di Orange-Nassau (1567-1625), Statolder (governatore) della repubblica delle Sette Province Unite (come allora si chiamavano i Paesi Bassi) nella fase conclusiva della Guerra dei Trent’anni (1618-1648). Qualche tempo dopo, si arruola di nuovo in un esercito, questa volta quello di Massimiliano I Wittelsbach detto Il Grande (1573-1651), elettore imperiale e duca di Baviera, cattolico, che nel 1620 stringe d’assedio Praga e ne fa fuggire Federico I re di Boemia ed elettore imperiale (1596-1632), protestante. Con la figlia di quest’ultimo, la principessa Elisabetta di Boemia (1618-1680), pure protestante, Cartesio intrattiene un intenso rapporto epistolare di natura filosofica negli ultimi sette anni della propria vita. Nel 1623 giunge in Italia, dove non riesce però a realizzare il desiderio d’incontrare Galileo Galilei (1564-1642). Rientra quindi in Francia per stabilirsi, qualche anno dopo, nel 1628, nelle Province Unite. Secondo alcuni biografi, sembra che sia stato costretto a lasciare la patria per le accuse che, sin dal 1623 e poi ancora dal 1629, lo indicano come affiliato al leggendario ordine ermetico dei Rosacroce.


A partire dal 1630 inizia a lavorare a una grande opera, finalizzata all’esposizione dei risultati delle proprie ricerche nel campo della filosofia naturale, nella quale sostiene la teoria copernicana. La notizia del processo a Galilei lo spinge però a non pubblicare l’opera. Grazie al successo dei suoi scritti, Cartesio si afferma come uno degli intellettuali più celebri d’Europa, specialmente come matematico. Si dedica quindi alla stesura di un’opera che possa rappresentare la summa del proprio pensiero e che fa circolare tra un gruppo ristretto di lettori per averne commenti e critiche. Questo testo, che assieme al Discorso sul metodo, del 1637, rappresenta il maggior contributo filosofico cartesiano, viene pubblicato in latino nel 1641 con il titolo Meditationes de prima philosophia (dell’anno successivo è la seconda edizione ampliata), poi tradotto in francese, con revisione dell’autore, nel 1647 come Meditazioni metafisiche. Nello stesso anno gli è riconosciuta una pensione e Cartesio, in una lettera alla principessa Elisabetta di Boemia, confida che, nonostante da bambino i medici gli avessero pronosticato una morte in giovane età, nutre buone speranze di diventare centenario. A vanificare questo proposito interviene però, ironia della sorte, un’altra sovrana. La regina Cristina di Svezia (1626-1689), convertitasi al cattolicesimo dal protestantesimo, sua ammiratrice, lo invita infatti a corte per poter ascoltare alcune lezioni, che però- dati gli impegni di governo – può seguire solo tra le cinque e le sei del mattino, costringendo il filosofo a uscire di casa nel freddo della notte del rigido inverno svedese. Dopo nemmeno un anno di questa vita, Cartesio, che raramente si era mai alzato prima di mezzogiorno, si ammala di polmonite e muore a Stoccolma.


Altre sue opere filosofiche importanti sono i Principia philosophiae del 1644 e il Trattato delle passioni del 1649.

HA DETTO:

«Già da qualche tempo, ed anzi fin dai miei primi anni, mi sono accorto di quante falsità ho considerato come vere, e quanto siano dubbie tutte le conclusioni che poi ho desunto da queste basi; ho compreso dunque che almeno una volta nella vita tutte queste convinzioni devono essere sovvertite, e di nuovo si deve ricominciare fin dai primi fondamenti, se mai io desideri fissare qualcosa che sia saldo e duraturo nelle scienze. Questa tuttavia sembrava essere un’opera assai impegnativa, ed aspettavo dunque un’età che fosse cosi matura da non doverne aspettare un’altra più adatta per impadronirsi di tali discipline. E perciò ho atteso tanto da essere poi in colpa se, quel tempo che rimane per agire, lo consumassi nel prendere decisioni. E perciò opportunamente oggi ho liberato la mente da tutte le preoccupazioni, mi sono procurato una quiete totale, me ne sto solo, e quindi avrò tempo di distruggere totalmente, con serietà e libertà, tutte le mie antiche opinioni»

Meditazioni metafisiche, trad. it., a cura di Antonella Lignani ed Eros Lunani, Armando Editore, Roma 2003, p. 43.


«Suppongo dunque che tutto quello che vedo sia falso; credo che non sia mai esistita nulla di quelle cose che una fallace memoria mi ripropone; non ho assolutamente nessuno dei sensi; il corpo, la figura, l’estensione, il moto, il luogo, lo spazio sono delle pure chimere. Quale sarà dunque la verità? Forse questo solo, che non vi è nulla di certo. […] Forse dunque almeno io sono qualcosa? Ma già ho negato di avere dei sensi, un corpo. Tuttavia rimango invischiato in questi dubbi. Che deriva infatti da ciò? Sono dunque cosi legato al corpo e ai sensi, da non poter esistere senza di essi? Ma mi sono convinto che non c’è assolutamente niente al mondo, che non c’è il cielo, che non c’è la terra, che non ci sono spiriti, che non ci sono corpi. Non è forse vero quindi che anche io non esisto? Eppure certamente io esistevo, se ho avuto qualche persuasione. Ma vi è un non so quale ingannatore, sommamente potente, sommamente astuto, che di proposito mi inganna sempre. Senza dubbio dunque anche io sono, se mi inganna; e mi inganni pure quanto può, tuttavia non farà mai in modo che io sia nulla, mentre penso di essere qualcosa. Cosicché, dopo aver vagliato in maniera accuratissima tutti gli aspetti del problema, alla fine bisogna ritenere valido questo: la proposizione “lo sono, io esisto”, ogni qual volta viene da me espressa o anche solo concepita con la mente, necessariamente è vera»

Meditazioni metafisiche, trad. it., a cura di Antonella Lignani ed Eros Lunani, Armando Editore, Roma 2003, pp. 55-56.


«Quella stessa affermazione che poc’anzi ho assunto come regola, cioè che son vere tutte le cose che concepiamo in modo del tutto chiaro e distinto, è certa solo in quanto Dio è o esiste ed è un essere perfetto e tutto quanto è in noi viene da lui. Ne consegue che le nostre idee o nozioni, essendo cose reali e provenienti da Dio, in tutto quello che hanno di chiaro e distinto non possono essere che vere. […] La ragione, infatti, […] ci suggerisce che tutte le nostre idee o nozioni debbono avere qualche fondamento di verità, poiché non potrebbe essere che Dio, che è assolutamente perfetto e veridico, le abbia poste nella nostra mente senza che fossero vere»

Discorso sul metodo, in Opere scientifiche, a cura di Ettore Lojacono, UTET, Torino 1983, 2 voll., vol. 2, pp. 147-148.

RISPOSTE NELLA PROSPETTIVA CATTOLICA:

Comprendere la “pericolosità” del pensiero di Cartesio in una prospettiva cattolica è particolarmente difficile, in quanto l’autore, che si riteneva cattolico, afferma dopo un lungo procedimento dimostrativo l’esistenza di Dio e gli riconosce alcuni attributi (infinitudine, bontà, perfezione, verità) propri della tradizione cristiana. Inoltre, Cartesio non è uno scettico (nonostante il dubbio metodico esercitato come premessa del suo filosofare) e riconosce validità ed esistenza a tutte le grandi realtà oggetto della riflessione filosofica: Dio, anima e mondo. II vero pericolo è rappresentato piuttosto dal radicale cambio di prospettiva della filosofia moderna, di cui Cartesio è unanimemente riconosciuto come padre fondatore, e dalle conseguenze negative che tale rovesciamento porta necessariamente con sé. «Non è esagerato affermare che buona parte del pensiero filosofico moderno – scrive Papa Giovanni Paolo ll (1920-2005) – si è sviluppato allontanandosi progressivamente dalla Rivelazione cristiana, fino a raggiungere contrapposizioni esplicite» (Enciclica Fides et ratio, del 1998, n. 46). Cercheremo quindi, alla luce dei testi che abbiamo riportato, di esporre alcune considerazioni critiche che aiutino a scorgere nella filosofia cartesiana i germi dissolutori di tutto il pensiero classico e cristiano. Premettiamo subito che la rivoluzione moderna consiste nell’aver sostituito al primato dell’essere (di cui la filosofia di san Tommaso d’Aquino [1225-1274] è vertice sommo) il primato del soggetto. «È cosi accaduto che, invece di esprimere al meglio la tensione verso la verità, la ragione […] si è curvata su se stessa diventando, giorno dopo giorno, incapace di sollevare lo sguardo verso l’alto per osare di raggiungere la verità dell’essere. La filosofia moderna, dimenticando di orientare la sua indagine sull’essere, ha concentrato la propria ricerca sulla conoscenza umana. Invece di far leva sulla capacità che l’uomo ha di conoscere la verità, ha preferito sottolinearne i limiti e i condizionamenti» (Fides et ratio, cit., n. 5).


Cartesio inizia la sua filosofia con un intento chiaramente espresso: distruggere tutte le convinzioni e le opinioni acquisite nel corso dei suoi studi giovanili. Le novità della scienza moderna, che sembravano abbattere convinzioni secolari fondate sull’esperienza sensibile (come ad esempio il movimento del sole, negato dalla teoria copernicana), cosi come l’influsso della tradizione antimetafisica derivante dal frate francescano inglese Guglielmo di Occam (1285-1347), con la radicale separazione tra ragione e fede, spinsero Cartesio a una radicale messa in discussione di tutto il sapere tradizionale. Da qui la nascita del “dubbio cartesiano” come punto di partenza per un nuovo sapere, alla ricerca di un solido fondamento per la scienza. Già da questa sfiducia nei confronti del sapere tradizionale, si può intravedere la china pericolosa che il pensiero cartesiano ha imboccato fin dall’inizio. In effetti, la Chiesa insegna da sempre che, sebbene non tutto il sapere classico possa essere in linea con la dottrina rivelata, esistono comunque negli autori antichi – primo fra tutti il greco Aristotele (384/383a.C.-322a.C.) – dei principi universali eternamente validi. Scrive papa Paolo VI (1897-1978): «Mentre, infatti, Aristotele e altri filosofi erano e sono accettabili salvo le necessarie correzioni particolari – per l’universalità dei loro principii, il loro rispetto della realtà oggettiva e il loro riconoscimento di un Dio distinto dal mondo, non altrettanto si può dire di ogni filosofia o concezione scientifica, i cui principi fondamentali siano inconciliabili con la fede religiosa, vuoi per il monismo su cui si basano, vuoi per la loro chiusura ala trascendenza, o il loro soggettivismo o agnosticismo. Purtroppo non pochi sistemi moderni si trovano in questa posizione di irriducibilità radicale alla fede cristiana e alla teologia» (Lettera apostolica Lumen Ecclesiæ, del 1974, n. 18).


Cartesio è considerato uno dei maggiori esponenti del razionalismo, ovvero di quella corrente di pensiero, opposta all’empirismo, che considera la conoscenza umana fondata non sull’esperienza sensibile, ma su ciò che la ragione da se stessa riconosce come valido. Cartesio dice espressamente di non considerare come valida nessuna conoscenza attestata dai sensi, nemmeno quella dei corpi sensibili. Tutto quello che vediamo ogni giorno potrebbe essere destituito di ogni verità. La realtà sensibile potrebbe essere pura illusione. Il mondo potrebbe non esistere. Il nuovo sapere non potrà così fondarsi sull’essere, ma dovrà trovare un fondamento diverso e incrollabile. Cartesio giunge cosi ad affermare che l’unica realtà indubitabile è il pensiero. Potremmo ingannarci su tutto, perfino sull’esistenza del nostro corpo, ma non potremmo mai mettere in dubbio che il pensiero, che potrebbe ingannarsi su tutto, esiste. L’inganno presuppone infatti l’esistenza di “qualcosa” che si inganna. «Cogito ergo sum res cogitans»: ecco il famoso principio cartesiano che dà origine alla filosofia moderna. Penso, dunque sono un “qual cosa” che pensa. Il pensiero esiste indubitabilmente. In questo principio, che Cartesio ammanta di una scrupolosità profonda, ma che in realtà avrebbe fatto sorridere Aristotele e san Tommaso D’Aquino, c’è già tutta la rivoluzione filosofica moderna. È l’abbattimento del “realismo” filosofico, cioè la certezza che la realtà esiste indipendentemente dal pensiero e che la ragione umana, nella conoscenza, deve adeguarsi alla realtà come è configurata. Tutta la filosofia classica e tomista definisce la verità come «adæquatio rei et intellectus», cioè “adeguamento dell’intelletto alla realtà”. In Cartesio, questo principio fondamentale salta. La verità si trasforma in “certezza”. È “vero” solo ciò di cui il soggetto è “certo” indubitabilmente (da qui il soggettivismo moderno). Si attua cosi il radicale passaggio dalla filosofia dell’essere a quella dell’apparire: la realtà e il vero sono quelli che appaiono al soggetto e sono da lui riconosciuti come validi e indubitabili. Per capire bene questo passaggio cruciale e intuirne la pericolosità può tornare utile sottolineare, attraverso il Magistero della Chiesa, la differenza radicale con il realismo tomista. Papa Pio XI (1857-1939) affermava: «È nella Tomistica, per cosi dire, un certo Vangelo naturale, un fondamento incomparabilmente solido per tutte le costruzioni scientifiche, perché la caratteristica del Tomismo è quella di essere anzitutto oggettivo: le sue non sono costruzioni o elevazioni dello spirito semplicemente astratte, ma sono le costruzioni dello spirito che seguono l’invito reale delle cose […]. Non verrà mai meno il valore della dottrina tomistica, perché bisognerebbe che venisse meno il valore delle cose» (Discorsi di Pio XI, vol. I, Torino 1960, pp. 668-669, cit. in Lumen ecclesiæ, n. 15). E papa Giovanni Paolo II (1920-2005) sottolinea che «san Tommaso amò in maniera disinteressata la verità. […] In lui, il Magistero della Chiesa ha visto ed apprezzato la passione per la verità; il suo pensiero, proprio perché si mantenne sempre nell’orizzonte della verità universale, oggettiva e trascendente, raggiunse “vette che l’intelligenza umana non avrebbe mai potuto pensare”. Con ragione, quindi, egli può essere definito “apostolo della verità”. Proprio perché alla verità mirava senza riserve, nel suo realismo egli seppe riconoscerne l’oggettività. La sua è veramente la filosofia dell’essere e non del semplice apparire» (Fides et ratio, cit., n. 44).


In Cartesio il soggettivismo e il primato del pensiero non approdano alla negazione dell’essere esterno al pensiero. Attraverso un processo dimostrativo, la filosofia cartesiana riconosce sia l’esistenza di Dio sia quella della realtà materiale esterna al soggetto. Non possiamo però non sottolineare la pericolosa “riduzione” che Cartesio fa di Dio come semplice “garante” della corrispondenza fra pensiero e realtà. Dio esiste, è il creatore del mondo, è perfetto e non può ingannare. Cartesio utilizza questi attributi per fare di Dio il “garante” che tra pensiero e realtà esiste una corrispondenza, ma solo se la realtà è concepita in termini meccanicistici e matematici. Il filosofo francese anticartesiano Blaise Pascal (1623-1662), uno dei pochi pensatori moderni che, con la sua fede cristiana, intuì la china pericolosa che il pensiero moderno aveva preso, scriverà: «Non posso perdonarla a Cartesio, il quale in tutta la sua filosofia avrebbe voluto poter fare a meno di Dio, ma non ha potuto evitare di fargli dare un colpetto al mondo per metterlo in moto; dopodiché non sa più che farne di Dio» (Pensieri, a cura di Paolo Serini [1899-1965], Einaudi, Torino 1962, n. 77).

PER SAPERNE DI PIÙ:

Per una panoramica critica del pensiero filosofico alla luce della dottrina cattolica, rimandiamo a “Il viaggio dei filosofi” del nostro sito.

Il pensiero pericoloso di Auguste Comte

di Luigi Girlanda

Riportiamo uno dei contributi del presidente Luigi Girlanda al Dizionario elementare del pensiero pericoloso edito dall’Istituto di Apologetica (a cura di Gianpaolo Barra, Mario A. Innaccone e Marco Respinti). Le varie voci del Dizionario sono articolate in modo da riportare notizie biografiche sull’autore esaminato, alcune affermazioni centrali del suo pensiero e le risposte cattoliche per evidenziarne gli errori e la pericolosità. È possibile acquistare il Dizionario direttamente dal sito del Timone.



Auguste Comte, (nome completo Isidore Marie Auguste François Xavier Comte, 1798-1857), unanimemente considerato il caposcuola francese della corrente filosofica del positivismo, nasce a Montpellier, nel sud della Francia, il 19 gennaio 1798. Viene educato ai principi della religione cattolica fino ai quindici anni, quando riusce a entrare nella prestigiosa École Polytechnique, la scuola fondata durante la rivoluzione francese per formare i funzionari tecnici pubblici. Nel 1816, con la Restaurazione, la scuola è chiusa e Comte si lega a Saint-Simon (Claude-Henri de Rouvroy, conte di Saint-Simon, 1760-1825), filosofo fondatore del socialismo francese, di cui diviene segretario e da cui rimane profondamente influenzato, fino al 1824 quando il rapporto tra i due si interrompe in modo piuttosto burrascoso. Nel 1825 sposa Caroline Massin (1802-1877), una ex-prostituta che conosce qualche anno prima al Palazzo Reale e tenta senza successo di ottenere la cattedra di matematica all’École Polytechnique. Nel 1826 inizia, presso la sua abitazione, un corso di filosofia, subito sospeso per via di un disagio psicologico depressivo e di un crollo nervoso, dovuto ai continui tradimenti della moglie, che culmina in un disperato tentativo di suicidio (si getta nella Senna, ma è ripescato da una guardia reale). Superato questo momento, nel 1830 dà alle stampe il primo volume della sua opera maggiore, il Corso di filosofia positiva, di cui escono in seguito altri cinque volumi, fino al 1842. Quest’opera, se da una parte lo fa conoscere consacrandolo come caposcuola del positivismo, dall’altra gli attira le ostilità degli ambienti accademici, facendogli perdere il posto di ripetitore, faticosamente ottenuto nel 1833 presso l’École. Dal 1842, Comte vive grazie agli aiuti economici dei suoi discepoli. La sua situazione si fa sempre più grave fino a quando, nel 1845, dopo la separazione dalla moglie, ha un secondo grave crollo nervoso. Riesce a superare la crisi grazie all’incontro con Clotilde de Vaux (1815-1846), giovane sorella di un suo allievo, di cui si innamora profondamente. L’intensa relazione tra i due è però offuscata dal rifiuto al matrimonio di Clotilde perché malata di tubercolosi e bruscamente interrotta dalla morte di lei nel 1846. Queste vicende personali contribuiscono probabilmente a imprimere alla riflessione di Comte una caratterizzazione di tipo mistico religioso. La sua filosofia si trasforma in una religione che sostituisce il culto di Dio con quello dell’Umanità e la venerazione dei grandi scienziati a quella dei santi. Queste posizioni lo rendono inviso a molti suoi seguaci, anche se la sua predicazione, che diffonde in veste di pontefice e profeta del nuovo credo positivista, ha un certo successo in Francia, in Inghilterra e nelle Americhe (dove esistono ancora oggi templi positivisti). Muore a Parigi il 5 settembre 1857, all’età di 59 anni, a causa di un’emorragia interna, forse conseguente a un tumore allo stomaco.


Tra le sue opere principali ricordiamo: Piano di lavori scientifici necessari per riorganizzare la società (1822); Corso di filosofia positiva (6 volumi pubblicati tra il 1830 e il 1842); Sistema di politica positiva (4 volumi pubblicati tra il 1851 e il 1854); Catechismo positivista (1852); Calendario positivista (pubblicato postumo nel 1860).

HA DETTO:

“Il carattere fondamentale della filosofia positiva è di considerare tutti i fenomeni come soggetti a leggi naturali invariabili: la loro scoperta e la loro riduzione al minor numero possibile costituiscono il fine di tutti i nostri sforzi, in quanto la ricerca di ciò che chiamiamo cause – siano esse cause prime o cause finali – deve essere considerata assolutamente inaccessibile e priva di senso per noi (…). Ciascuno sa, in effetti, che nelle nostre spiegazioni positive, anche le più perfette, non abbiamo affatto la pretesa di esporre le cause generatrici dei fenomeni (…), ma abbiamo soltanto la pretesa di analizzare con esattezza le circostanze della loro produzione”

(A. Comte, Corso di filosofia positiva, in Positivismo e società industriale, a cura di P. Rossi, Loescher, Torino 1973, vol. 1., pp. 155-156)


“Studiando così lo sviluppo totale dell’intelligenza umana in tutte le sue diverse sfere di attività (…) credo di aver scoperto una grande legge fondamentale, alla quale è soggetto per una necessità invariabile, e che mi sembra possa essere saldamente stabilita (…). La legge consiste in questo, che ogni nostra concezione principale, ogni branca delle nostre conoscenze, passa per tre stadi teorici diversi: lo stadio teologico o fittizio, lo stadio metafisico o astratto, lo stadio scientifico o positivo”

(A. Comte, Corso di filosofia positiva, a cura di A. Lunardon, La Scuola, Brescia 1974, pag. 9)


“Nello stadio teologico, lo spirito umano, mirando essenzialmente, mediante le ricerche, allo scoprimento dell’intima natura degli esseri, delle cause prime e ultime dei fenomeni che lo colpiscono, in una parola alle conoscenze assolute, si rappresenta i fenomeni come prodotti dall’azione diretta e continua di agenti sovrannaturali, più o meno numerosi, il cui intervento arbitrario spiega le apparenti anomalie dell’universo”

(A. Comte, Corso di filosofia positiva, a cura di A. Lunardon, La Scuola, Brescia 1974, pag. 10)


“Nello stadio positivo, lo spirito umano, riconoscendo l’impossibilità di avere delle nozioni assolute, rinuncia a indagare sull’origine e sul destino dell’universo, e a conoscere le intime cause dei fenomeni, per tentare di scoprire unicamente, mediante l’uso ben combinato della ragione e dell’esperienza, le loro leggi effettive, ossia le loro relazioni invariabili di somiglianza e di successione. La spiegazione dei fatti, ridotta allora in termini reali, altro non è che il legame stabilito tra i diversi fenomeni particolari e qualche fatto generale, il cui numero tende via via a diminuire in seguito al progresso della scienza”

(A. Comte, Corso di filosofia positiva, a cura di A. Lunardon, La Scuola, Brescia 1974, pp. 10-11)


“L’Umanità condensa direttamente i tre caratteri del positivismo (…). A questo solo vero Grande essere, di cui siamo consapevolmente i componenti necessari, si riferiranno ormai tutti gli aspetti della nostra esistenza individuale o collettiva – le nostre contemplazioni per conoscerlo, i nostri affetti per amarlo, le nostre azioni per servirlo (…). Così il positivismo diventa finalmente una vera religione, la sola religione completa e reale, destinata a prevalere su tutte le sistemazioni imperfette e provvisorie derivate dal teologismo iniziale (…). Divenuti così sacerdoti dell’Umanità, i nuovi filosofi devono ottenere un ascendente intellettuale e morale più esteso e meglio radicato del sacerdozio antico (…). Interamente votata allo studio, diretto o indiretto, dell’Umanità, la scienza assumerà ormai un carattere veramente sacro, come fondamento sistematico del culto universale. Soltanto essa potrà farci conoscere non soltanto la natura e la condizione del Grande essere, ma anche i suoi destini e le sue tendenze successive”

(A. Comte, Sistema di politica positiva. Discorso preliminare sull’insieme del positivismo, in Positivismo e società industriale, a cura di P. Rossi, Loescher, Torino 1973, vol. 1., pp. 215-216

RISPOSTE NELLA PROSPETTIVA CATTOLICA

Il positivismo è quella corrente di pensiero che assume come unico criterio valido della conoscenza umana il metodo scientifico. Tutto ciò che non è conoscibile “scientificamente” non ha alcun valore né fondamento. E’ chiaro che il concetto di scienza a cui fa riferimento Comte è quello elaborato da Galileo Galilei (1564-1642) nel XVII secolo. Una visione molto diversa da quella classica, dove la scienza aveva proprio il compito e il fine di conoscere le cause e principi primi della realtà. La scienza moderna esclude la possibilità di conoscere l’essenza e il “perché ultimo” delle cose e si limita alla semplice spiegazione del “come” i fenomeni si svolgono. Per Comte e per il positivismo bisogna abbandonare la pretesa di esporre le cause finali dei fenomeni osservati. Tutto questo contrasta, oltre che con la visione aristotelica classica della scienza intesa come “ricerca delle cause prime”, anche con la Sacra Scrittura. San Paolo rimprovera i pagani che, pur non avendo ricevuto la rivelazione di Dio, non hanno usato la ragione per riconoscere dalle realtà osservate la causa prima della loro perfezione. Scrive infatti nella Lettera ai Romani: “ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità; essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa” (Rm 1, 19-21).   


Oltre a ridurre la conoscenza umana al solo metodo scientifico moderno, Comte riduce quindi il reale alla sua visibilità e osservabilità. Non c’è nulla “dietro” i fenomeni osservati. Solo ciò che è visibile è reale. La realtà è ridotta a quello che è possibile osservare. Comte crede di aver individuato la legge necessaria che regola il cammino dell’umanità e di ogni singolo uomo verso la presa di coscienza di questa riduzione al visibile: la legge dei tre stadi. La visione teologica e quella metafisica, cioè quelle che individuano una realtà invisibile come fondamento del reale e ricercano il “perché” delle cose, sono considerate come “infanzia” e “adolescenza” di ogni singolo uomo e dell’umanità in generale. Adulta è solo l’umanità che, abbandonata la chimera di una spiegazione ultima del reale, si limita a conoscere in modo “positivo” solo ciò che è osservabile. Rispetto al vis polemica illuminista verso la religione e la metafisica, basti pensare agli scritti di Voltaire (1694-1778), nel positivismo l’atteggiamento verso la religione è piuttosto caratterizzato da una sorta “superiorità adulta”. L’uomo religioso è infantile; più che combatterlo bisogna attendere il suo evolversi e il passaggio a uno stadio adulto e maturo. 


Nello “stadio positivo” l’uomo riconosce l’impossibilità di avere nozioni assolute sulla realtà. Per comprendere bene il significato di “positivo” nella filosofia di Comte è opportuno richiamare brevemente alcune accezioni che il termine assume nella sua riflessione. “Positivo” significa in primo luogo “reale”, contrapposto a “chimerico”, astratto o metafisico. Il termine indica in Comte anche “utile”, contrapposto a “ozioso”. Un sapere quindi pratico e non astratto. Può significare anche “preciso”, in contrasto con il sapere confuso e indistinto della filosofia classica. Ecco quindi che lo stadio positivo è per Comte l’unico degno di un’umanità adulta, finalmente libera dal falso conoscere del passato. E’ chiaro la visione positivista della realtà è in netto contrasto con la dottrina cattolica. Giovanni Paolo II lo denunciava chiaramente nell’enciclica Fides et ratio: “Nell’ambito della ricerca scientifica si è venuta imponendo una mentalità positivista che non soltanto si è allontanata da ogni riferimento alla visione cristiana del mondo, ma ha anche, e soprattutto, lasciato cadere ogni richiamo alla visione metafisica e morale” (n. 46). Nel positivismo infatti diventa impossibile quel faticoso erigersi del pensiero alle realtà assolute attraverso l’osservazione del mondo sensibile. Per la dottrina cattolica la ragione umana può conoscere con le sue solo forze l’esistenza di Dio. Basti pensare alle “cinque vie” di san Tommaso D’Aquino, rese di fatto impraticabili dal positivismo. Il Catechismo ribadisce invece che “la Chiesa insegna che il Dio unico e vero, nostro Creatore e Signore, può essere conosciuto con certezza attraverso le sue opere, grazie alla luce naturale della ragione umana” (CCC. n. 47). 


La filosofia di Comte approda infine a una vera e propria “religione dell’umanità”. Quest’ultimo tratto del suo pensiero può aiutare a far luce sull’iniziale rapporto tra Chiesa e scienza moderna. Il famoso “caso Galilei”, enfatizzato dalla propaganda illuminista come esempio di avversione della Chiesa al progresso, aveva a fondamento proprio il pericolo della trasformazione della scienza in una nuova religione. Galilei non portava prove a sostegno del suo appoggio alla teoria copernicana, essendo sbagliata quella delle “maree” da lui sostenuta. Per questo, proprio in fedeltà al metodo scientifico, gli veniva chiesto di presentare la teoria come un’ipotesi e non come una legge provata. Nella sua lungimiranza, la Chiesa aveva intuito il pericolo di trasformare lo scienziato in un sacerdote, a cui dover “credere” anche senza prove certe. Comte, con la sua teorizzazione della nuova religione positivista, ci mostra che la Chiesa, pur valorizzando l’autentico progresso scientifico, ne aveva però intuito per tempo anche le possibili derive idolatriche.   

PER SAPERNE DI PIÙ: 

A. Negri, Introduzione a Comte, ed. Laterza, Bari 2001


Il sito www.filosofico.net offre un’ampia trattazione del positivismo e di Comte


Per una panoramica critica del pensiero filosofico alla luce della dottrina cattolica, rimandiamo a “Il viaggio dei filosofi” del nostro sito

Un sapere non trattenuto è un sapere smarrito

di Luigi Girlanda

La rivoluzione del 1968, in nome del rifiuto del “nozionismo”, ha cancellato dalla didattica gli esercizi di memorizzazione. Eppure la lezione degli uomini di cultura, dei tempi antichi ma anche moderni, è decisamente un’altra.


Come insegna la storia moderna, ogni rivoluzione porta con sé una qualche devastazione. Non solo per quanto concerne il numero di vite, che quasi sempre l’ideologia di turno sacrifica sull’altare della rivoluzione, ma anche per l’impoverimento umano e culturale che ogni stravolgimento dell’ordine naturale e della società cattolica, che ne è massima e sublime espressione, comporta. San Pio X ha scritto su questo aspetto parole che sono più attuali che mai, anche se oggi vengono spesso rimosse con imbarazzo perfino da parte di molti cattolici. “La civiltà non è più da inventare – scriveva infatti nella Notre charge apostoliquené la città nuova da costruire sulle nuvole. Essa è esistita, essa esiste; è la civiltà cristiana, è la civiltà cattolica. Si tratta unicamente d’instaurarla e di restaurarla senza sosta sui suoi fondamenti naturali e divini contro gli attacchi sempre rinascenti della malsana utopia, della rivolta e dell’empietà”. Tra gli attacchi più devastanti della malsana utopia, per dirla con san Pio X, c’è senza dubbio la rivoluzione del 1968. Ultima propaggine della modernità e compendio di tutte le rivoluzioni precedenti, il Sessantotto ha attuato un pericoloso stravolgimento pedagogico e didattico che si è poi riverberato con effetti devastanti sul piano antropologico e culturale.

Niente più poesie e filastrocche

Premessa ideologica del Sessantotto è la negazione del peccato originale e la conseguente affermazione, sulla scia di Rousseau, della “bontà originaria dell’uomo”. Non esistendo una “natura corrotta”, l’insegnamento non deve avvenire con modalità trasmissiva, perché il bambino, in quanto innocente, ha in sé tutte le potenzialità per autoformarsi, senza il bisogno di un sapere esterno oggettivamente dato. Il sapere non si trasmette, ma ognuno lo “costruisce” da sé. Date queste premesse, il Sessantotto elabora una didattica in cui, ovviamente, viene bandito, al di sopra di tutto, l’imparare le cose a memoria. “Abbasso il nozionismo” è lo slogan da cui prende il via la critica radicale a un sapere considerato sterile e insignificante. Fin dalla scuola primaria è ormai scomparso qualsiasi esercizio di memorizzazione: niente più poesie o filastrocche, niente più tabelline o formulette da imparare a memoria. Così facendo, si sono condannate intere generazioni a smarrire il senso e il valore della memoria, una facoltà della mente umana che, quasi come accade con i muscoli, se non utilizzata ed esercitata finisce per atrofizzarsi. Un sapere non trattenuto è infatti un sapere smarrito. Lo insegnava già Dante, famoso per la sua straordinaria capacità mnemonica, nella Divina Commedia. Quando Beatrice, nel V canto del Paradiso, spiega il valore sublime del voto, intima al Poeta di aprire la mente a ciò che sta per dire e di fissarlo nella memoria perché “non fa scienza, sanza lo ritenere, avere inteso” – intendere, capire, non basta per “fare scienza”, cioè per acquisire la conoscenza; è necessario ritenere, cioè trattenere, fermare nella mente (memoria) ciò che si è compreso.

La ricchezza che nessuno può togliere

Infiniti possono essere gli esempi di come da sempre l’uomo abbia considerato vitale l’apprendere a memoria i contenuti fondamentali della propria cultura e visione del mondo: da Petrarca, la cui proverbiale memoria è esaltata da Boccaccio, ad Alfieri che, nella sua Vita, scrive: “Migliaia e migliaia di versi altrui mi collocai nel cervello”. Nel De bello Gallico Cesare scrive che i druidi imparavano “magnum numerum versuum”, una gran quantità di versi, mentre lo storico e critico Francesco De Sanctis nel frammento La giovinezza racconta di gare di memorizzazione con i compagni di studi. Tutte le epoche storiche e tutte le società, a eccezione di quella nata dalla rivoluzione del Sessantotto, hanno considerato vitale per l’uomo imparare a memoria i fondamenti culturali della propria tradizione e storia. Non è un caso che fin dagli albori dell’umanità le tradizioni orali – dunque trasmesse mnemonicamente da maestro a discepolo – abbiano avuto un ruolo decisivo nella trasmissione del sapere. Anche nella formazione della Bibbia, all’origine c’è un nucleo di racconti imparati a memoria e trasmessi oralmente di generazione in generazione. Oggi, come sempre, i bambini preferiscono ascoltare il racconto delle fiabe dal vivo ricordo di un genitore o di un nonno, piuttosto che dalla lettura di un testo scritto. Ed è esperienza comune vedere come esigano che le parole del racconto siano sempre le stesse, mandate a memoria sera dopo sera. “Per l’uomo del Medioevo – scrive l’italianista Francesco Bausi – ma si potrebbe dire in generale: per l’uomo premoderno, e in generale per l’uomo pre-digitale, la memoria era strumento base della conoscenza e della vita”. La memoria come strumento della vita fa tornare alla mente l’esperienza drammatica di Primo Levi che, in Se questo è un uomo, racconta di come insegnò la lingua italiana a suo compagno di prigionia proprio partendo dal canto di Ulisse dell’Inferno di Dante. Quando l’uomo è spogliato di tutto, come in un campo di concentramento, gli resta sempre la sua memoria. Se Primo Levi non avesse impresso nella sua mente i versi di Dante (appresi probabilmente quando, poco più che bambino, non ne aveva nemmeno colto la sublime profondità), non avrebbe potuto farne tesoro una volta spogliato di tutto, tranne che del suo universo interiore e della sua memoria.

Se perdessimo la rubrica del cellulare

Oggi, alcuni dei più apprezzati intellettuali e uomini di cultura, anche di ambiente laicista, auspicano un ritorno a una metodologia didattica che non demonizzi più il ricorso alla memoria nell’apprendimento. Il caso più noto è quello di Umberto Eco che, dalle colonne dell’Espresso, qualche anno fa scrisse, proprio per Natale, una lettera pubblica a un suo nipotino consigliandogli di cominciare a “studiare a memoria”. Il noto semiologo sottolineava, tra l’altro, il rischio di una sorta di sostituzione indebita della memoria umana con quella digitale. “Il rischio è che – scriveva rivolgendosi al giovanissimo nipote – siccome pensi che il tuo computer te lo possa dire a ogni istante, tu perda il gusto di mettertelo in testa. Sarebbe un poco come se, avendo imparato che per andare da via Tale a via Talaltra, ci sono l’autobus o il metro che ti permettono di spostarti senza fatica (il che è comodissimo e fallo pure ogni volta che hai fretta) tu pensi che così non hai più bisogno di camminare”. Sembra davvero che anche la rivoluzione del Sessantotto abbia finito per essere sottoposta al processo di “eterogenesi dei fini”; si è ottenuto cioè l’esatto contrario di quello che si auspicava. Al posto di un sapere interiorizzato e costruito, si è ottenuto un evanescente nozionismo usa e getta, impedendo alle giovani generazioni di trattenere e appropriarsi di una vera cultura, condannandole e relegandole a una sorta di presente senza passato e senza futuro. Il filosofo francese Michel Serres ha riflettuto molto proprio sul rapporto tra tecnologia e memoria, sostenendo che da sempre l’evoluzione tecnologica è andata nella direzione di una parziale surrogazione della memoria da parte degli artefatti. Vale per il libro come per le memorie digitali. Però, continua Serres, se tutto il peso del ricordo viene esternalizzato nelle memorie digitali, vi è il forte rischio che nella nostra testa non rimanga nulla, neppure quel che serve a “ricordarsi” dove abbiamo collocato una memoria e come richiamarla. Sarà tempo di cominciare a rendersene conto davvero e di correre ai ripari. Ormai, senza la rubrica del cellulare, non siamo più in grado di telefonare nemmeno alle persone che amiamo di più.

da Il Timone (gennaio 2021)